Hemingway è stato un grande scrittore (e vorace lettore). Grande nel senso di
unico, inimitabile, anche se alcuni hanno provato ad emularlo. Unico perché
viveva la scrittura come una disciplina e una missione insieme. Un’attività
tagliata sulla vita stessa, a mo’ di abito, e da cui ogni tanto sentiva il bisogno
di scappare per non pensare troppo alle storie che aveva in mente e che stavano
nascendo tra i fogli confusi di un tavolo di un bar di Parigi.
Là, nella ville
lumière, negli anni Venti si è fatto le ossa. Non solo ha frequentato EzraPound, Gertrude Stein e F.S. Fitzgerald, ma ha trovato anche la sua voce
letteraria. Una voce autentica, per niente arzigogolata. “Scrivi la cosa più
vera che conosci” si raccomandava quando non trovava le parole e sostava un po’
davanti al fuoco rutilante del camino a spremere qualche buccia d’arancia,
tanto per vedere crescere la vampata.
Sapeva, infatti, che le parole sarebbero
venute da sole, senza forzature, perché la scrittura gli era congeniale. “Hai
scritto ieri e scriverai pure domani” insisteva se era con l’acqua alla gola
davanti al foglio immacolato.
E, comunque, non si risparmiava, mai. Si
esercitava moltissimo e in “Festa mobile”, un libro uscito postumo e pubblicato
da Mondadori, ci sono esempi su esempi di riscrittura. Né mancano le curiosità: Gertrude Stein era saccente e poco aperta al confronto, Scott Fitzgerald aveva sposato una pazza, gelosa della sua fama e della sua arte, mentre Pound (il caro Ezra) era un amico sincero e fidato.
Una raccolta-diario che
raccoglie lacerti di lettere, storie e riflessioni. Un testo “da retroscena”
che svela quel genio che era Hemingway.