Una giornata come tante: la sveglia,
il latte, i biscotti, il dentifricio e la cartella. “Non dimenticare
l’ombrello” strilla tua madre, mentre ti sistemi lo zaino sulle spalle e tiri
fuori le ciocche di capelli rimaste impigliate sotto il collo del giubbotto.
Piove. Pioggia battente di Gennaio,
come a salutare le festività ormai andate. Pensi che non resta che tornare a
scuola, mentre ti avvii alla fermata dell’autobus. Riecco le solite facce:
studenti, lavoratori, extracomunitari, passeggeri abituali, tutti lì, quasi se
non ci fossero state le vacanze. Già, le vacanze. Belle e andate. Di posti a
sedere neanche a parlarne, qualcuno ti invita a indietreggiare, e ti sistemi in
fondo. Vibra il cellulare, “Dove stai?” ti chiede Matteo, che ti aspettava
all’ingresso della scuola. Gli rispondi che stai arrivando, questione di
minuti. Un paio di fermate da casa tua a scuola, un tratto breve ma trafficato.
La gente pigia, una signora anziana chiede informazioni al conducente, che le
risponde, mentre lascia scendere qualche passeggero giunto a destinazione.
Riparte, chiude e apre le porte, intanto cerca di destreggiarsi tra le auto e
le moto, che dribblano e sorpassano sulla destra. Tra non molto ti tocca
scendere, la prossima fermata dista pochi minuti a piedi. Sbuffi, il cellulare
squilla di nuovo, i compagni ti aspettano, ma la pioggia ha intasato il
traffico. Qualcuno suona il clacson, si sta facendo tardi. Ti sporgi per
scrutare la strada, le macchine davanti sembrano formiche incolonnate. “Ragazzi
sto arrivando” rispondi all’ennesima chiamata, “Rosà, noi entriamo, vir' e 't
mover'nu' poc” replica Matteo. Riguardi la strada, chiedi l’ora e pensi che non
ce la farai ad entrare in orario, che salterai il compito di latino, il primo
del nuovo semestre, e che la professoressa te la farà scontare
all’interrogazione. L’autobus procede a passo di lumaca, “dobbiamo andare a
lavorare” urla qualcuno, “E io ccà m stong divertenn” risponde l’autista.
L’autobus riparte, è la tua fermata. “Si scende da dietro” ammonisce il
conducente. Ti affretti, sono scesi già tutti. Uno scalino ti separa dal
marciapiede, ma non fai in tempo a poggiare il piede, che ti senti trascinare
via da una forza inaspettata. “La cartella tra le porte, aiuto, aiuto, si è
incastrata sta cazzo di cartella” strilli intanto che le lacrime ti sgorgano
sul viso. Hai paura, non smetti di urlare, sbatti le gambe, muovi le braccia,
come un leprotto tra gli artigli di un’aquila. L’autista non vede, non sente,
imbatta con le richieste della gente. “Fermate qua? Giuvinò, me lo dite voi
dove devo scendere?” Troppe domande, troppe richieste per soli due occhi e due
orecchie. Non fanno in tempo ad accorgersi di te, che la vita ti è già
scivolata via dalla mani. “Non voglio morire” riesci ancora ad urlare con
l’ultimo filo di voce, mentre la pioggia lava via le tracce di sangue
sull’asfalto. “Non voglio morire” confessi all’ultimo essere umano che vedi e
che ti tiene tra le braccia come una figlia, come una stella cadente che gli è
piombata tra le mani, e brucia, prima di dissolversi nel nulla.
(a Federica Iacono, morta a Napoli sotto le ruote dell’autobus che la portava a scuola lo scorso Gennaio).
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