Venezia, in primavera, risplende di
luce. L’acqua scorre placida nei canali e i raggi del sole illuminano i ponti e
gli scorci dei vicoli. La bellezza della città che dorme sull’acqua mi riempie
il cuore. Mi aggiro per le strade come un cacciatore di teste, inquieto,
sperando di rivederlo, di incontralo di nuovo, così, per caso, com’è successo
ieri. A quest’ora sono tutti a casa per cena, i traghetti continuano a correre
lungo la laguna, riportano i veneziani a casa. Non ho più l’età per lavorare,
ma mi piace passeggiare, mi aiuta a pensare, a elaborare immagini… a scrivere.
Sono un rabdomante di volti, di espressioni carpite per caso, cerco i miei
personaggi tra la gente comune, fra i passanti inconsapevoli. Lui mi ha
folgorato. Ci siamo incrociati per caso. Camminavamo entrambi a testa bassa,
stavamo per scontrarci, quando un riflesso improvviso ci ha fatto sollevare il
capo. Mi ha guardato intensamente, con lo spavento di chi sta per imbattersi in
qualcuno o in qualcosa. Gli occhi negli occhi. Occhi neri di fuoco, tizzoni
accesi come fiamma viva di una caverna. Un ragazzo alto,
longilineo, i capelli scuri come gli occhi, avvolto nel suo cappotto nero, il
bavero alzato per nascondere il viso. Avrà avuto all’incirca ventisei anni ed
era identico a Daniel. Poi ha proseguito, lasciandomi incantato, in
silenzio.
Mi sono informato, si chiama Julian
e si è trasferito da poco a Venezia. Per me non è difficile avere informazioni,
in città mi conoscono tutti, e qualche ristoratore con la lingua lunga mi ha
raccontato di quel ragazzo di madre scozzese, tornato a Venezia dal padre.
Voglio scrivere dei suoi occhi, della vita, delle emozioni che li pervadono.
Sono un’amante della bellezza, della poesia, dell’armonia delle forme.
Lo cerco per giorni, ma non lo
trovo, finché, una mattina, lo vedo dietro la vetrina di un bar. Siede ad
un tavolo e fuma una sigaretta, è in compagnia di una ragazza. Si muove
disinvolto e lei lo ascolta con interesse. Vorrei entrare e presentarmi. Vorrei
saper dipingere, per ritrarlo in questo preciso momento. Non posso evitare di
guardarlo, sembra di cera. Mi decido ad entrare. Il bar è semideserto, Julian
si volta verso di me. Credo mi abbia riconosciuto. Possibile che esista un
ragazzo identico a mio figlio? Con una scusa mi avvicino e gli chiedo una
sigaretta, anche se non fumo. «Lei è veneziano?» mi domanda inaspettatamente
«Si, nato e cresciuto a Venezia. Perché me lo chiede?» «Allora saprà dirci come
mai questa città è così malinconica». Sorrido. Non ho una risposta, ma invento.
Gli dico che è colpa della laguna, dei ponti, dei vicoli stretti senza luce,
dell’umidità che consuma le pareti e ti entra nelle ossa. Accetto la sigaretta,
lui me l’accende e mi avvio al bancone per bere un amaro. Lo guardo di
nascosto, agita le mani, segue le immagini che la mente gli suggerisce.
Chiacchiera e la ragazza che gli siede di fronte non ha occhi che per lui. I
gesti, le espressioni di questo ragazzo restituiscono il tempo rubato a Daniel,
alla sua bellezza, alla sua giovinezza, dieci anni fa. Finisco l’amaro e vado a
casa.
Carlotta sta preparando la zuppa. Mi
tolgo la giacca e mi metto comodo per mangiare. Non posso raccontarle di
Julian, anche se mi piacerebbe. Non vorrei si mettesse sulle sue tracce e gli
raccontasse di Daniel, dell’incidente e tutto il resto. Mangio e faccio finta
di nulla. Su uno scaffale della libreria ci sono le foto di Daniel, mia
moglie mi ha impedito di toglierle. Le guardo anche adesso, mentre fumo la
pipa, dopo cena. Che Julian sia un angelo? che sia Daniel ritornato sulla Terra
per chissà quale disegno divino? Sciocchezze, sono idiozie di un povero vecchio
padre. La finestra è aperta, mi affaccio per schiarire le idee. Da qui posso
vedere la stradina che separa il mio palazzo dalle sponde della laguna e
ascoltare le voci dei passanti, posso sentire gli echi rimbalzare sui muri dei
vicoli, prima di disperdersi nell’aria. A quest’ora è difficile che passi
qualcuno, regna un silenzio assoluto. Poi lo rivedo, illuminato dalla luce
fioca di un lampione, abbracciato alla ragazza che era con lui al bar. Sorride,
allarga le braccia e la ragazza fa finta di andar via. Julian inizia a ridere
«Sei simpatica quando fingi di lasciarmi» le dice. Lei sbuffa, ma ritorna
indietro, lo bacia, gli dice che deve tornare a casa e che preferirebbe
percorrere l’ultimo tratto di strada da sola. «Come desideri, ma chère» e ride
di nuovo. Lei si allontana, si volta un attimo, ma il ragazzo sta già guardando
da un’altra parte. Si avvicina alla sponda del canale e ammira la città
illuminata. Il vento gli scompiglia i capelli. Non un sibilo dalla laguna,
segno che la primavera è esplosa. Julian non si muove, resta a fissare l’acqua,
come se stesse attendendo qualcosa. La malinconia della città lo invade, il
faro di Murano crea un gioco di specchi visibile anche dalla bocca del porto
del Lido. Le luci giungono ad intermittenza, fasci abbacinanti che abbracciano
le case, i ponti, la gente. Girano e vanno via, poi ritornano, per guidare il
tragitto delle navi e dei vaporetti. Anche Julian si lascia guidare.«Che
cos’hai da guardare alla finestra?» chiede Carlotta, «No, niente, guardo
le luci» «Le luci? Me se sono sempre le stesse da trent’anni». Non le rispondo.
Come faccio a spiegarle che stasera la luce è accecante e attraversa i corpi
diafani? Come faccio a dirle che guardo un ragazzo affogare, anche se scruta il
mare dalla riva del porto?
Quando Daniel è affogato, nessuno
era alla finestra a tenerlo d’occhio, nessuno ha visto o sentito nulla. L’acqua
gelida di dicembre l’ha ingoiato, portandosi via anche la mia pace. Allora ho
cominciato a scrivere. La scrittura mi ha aiutato ad esorcizzare il dolore, a
ricostruire i fatti, a guarire.
Julian si siede sulla banchina e
continua a fissare il mare. Non distoglie lo sguardo, resta immobile, cullato
dal suono delle onde leggere che lentamente iniziano ad alzarsi. Il fischio
della sirena di un vaporetto rompe il silenzio. Non resisto, scendo in strada.
Corro per le scale, ma quando arrivo giù, non c’è più nessuno. Mi guardo
intorno. Possibile che se ne sia andato? Mi avvicino al molo, rivolgo lo
sguardo verso il mare. Un cappotto nero galleggia a pelo d’acqua. Solo un
cappotto, come un velo. Uno sciabordio di sottofondo…
(Pubblicato in "Quinto colore racconta l'Italia, Opposto.net, 2011)
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