Nel saggio “L’elogio della revisione”,
(dall’antologia “Come scrivere”, AA.VV., Zelig editore) Emilio Tadini, pittore
e poeta, sostiene che ogni forma d’arte, dalla scrittura alla scultura, passa
attraverso una fase di mis en discussion.
“Non c’è, io credo, una bella scrittura senza correzione: i testi
apparentemente più semplici sono quelli più lavorati” dice Tadini, che non era
certo l’ultimo artista arrivato.
Perciò, toglietevi dalla testa che la
scrittura sia una sequenza di illuminazioni e di ispirazioni perpetue. Il lampo
di un’idea può accendere la prima miccia del pensiero, guidare la penna sul
foglio bianco, ma non produrre tout court un’opera fruibile. I più grandi
scrittori, infatti, non sono stati solo dei creativi, ma anche degli artigiani
indefessi, dei revisori di se stessi. Un’incombenza di certo non facile, né
dagli esiti scontati. La revisione, invero, richiede pazienza e tanta umiltà.
“Correzione è la capacità di penetrare dentro la struttura del testo, nella sua
fisiologia, rompendolo completamente e ricostruendolo senza però alterarlo”
scrive Tadini. Secondo lui, e chi scrive concorda, non esiste altra via per
scrivere. Ogni prima stesura necessita di interventi successivi, spesso
incisivi, e sono questi che suggeriscono all’occhio e all’orecchio aperture,
risvolti, digressioni. Correzione è movimento, è storia, è la sostanza della
scrittura. Avete presente Céline, il romanziere d’Oltralpe? Bene, lui buttava
giù ottomila pagine per ricavarne cento. Inoltre, è proprio durante la
revisione di un testo che si definisce perbene la punteggiatura, scandendo
musicalità e ritmo. La fase creativa potrebbe persino prescindere da questi
intervalli.
Chi scrive sappia, però, che non potrà evitarli, pena la resa
ottimale dell’opera. Qualcuno potrebbe obiettare che questa concezione
dell’arte sacrifica la naturalezza. In realtà, la verità della pagina è un
percorso in fieri, impossibile da conquistare immediatamente. Persino i poeti,
rabdomanti dell’attimo fuggente e della parola esatta, tornano di continuo su
quanto hanno prodotto. Il senso è ricerca, e la ricerca costa un mucchio di
fatica. Per dimostrarlo Tadini scomoda persino Freud, che sosterebbe un lavoro
di analisi vicino a quello della continua correzione.
Il guaio è che non esistono indici per
stabilire di quanta correzione un testo abbia bisogno. Si può solo insistere
nella rilettura: così, l’analisi smodata del testo conduce all’interpretazione,
e quindi alla strada verso la leggerezza che è il termometro, la bussola che ci
orienta. Una meta finale irraggiungibile senza un lavoro “a levare” terribile.
“La passione dell’assenza di parola” la definisce Tadini, che in alcuni casi,
induce persino alla ricostruzione (specie nella pittura). Il dato interessante
è che secondo lui la bellezza della scrittura, come della pittura o della
musica, è “il continuo esitare tra una forma che le definisca in maniera netta
e il metterle in discussione”. Un vero rompicapo filosofico, penserete.
Beninteso,
non esistono regole universali per la revisione. C’è chi corregge a penna, chi,
invece, al pc. A differenza di tanti scrittori e giornalisti del Novecento
costretti a scrivere a macchina e ricominciare da capo per la revisione, noi,
oggi, disponiamo del computer. Quest’ultimo ci permette di lavorare ad un testo
plastico, “che si adatta a ogni colpo di pollice, anche leggerissimo”, malgrado
del percorso da una bozza all’altra non rimanga nulla, a meno che non decidiate
di conservare il materiale. Al di là dei sistemi, la centralità di questo bel
discorso ruota intorno alla capacità di essere altro da sé. Solo questa fuga
alimenta la criticità a cui ci appelleremo per correggere, e paradossalmente,
solo la fuga ci permetterà di creare. “Mi considero un soggetto evasivo, non
ben definito: sono così” scrive Tadini, convinto, come Eliot, che fuggire dalla
propria personalità è sinonimo di estro.
Sarà vero?
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