mercoledì 7 dicembre 2011

La stagione delle fragole



Per settimane il sole aveva battuto insistente. Poi, quella sera, tutto ad un tratto cominciò a piovere.
Le pareti della stanza di Gilda erano zeppe di fotografie: Bob Dylan, Carl Marx, Fabrizio De Andrè, Jim Hendrix, John Lennon, e Pier Paolo Pasolini. La luce blu della lampadina illuminava  i fogli sparsi sulla scrivania e ne rifletteva le ombre. Gilda si era vestita in fretta. Si muoveva disinvolta nella camera, rovistando tra cassetti e vecchie scatole, alla ricerca di gingilli e di qualche spicciolo. L’immobilità dell’aria lasciava finalmente spazio ad una leggera brezza marina, preludio di fine estate.
Per fortuna non sono ancora arrivati, pensò, mentre raggruppava il portafogli, le chiavi e il rossetto.
Il vento, di tanto in tanto, entrava a smuovere quell’aria di plastica.
Andrea le aveva dato appuntamento per le ventuno e trenta. Un messaggio laconico, senza giri di parole. Come quella volta che aveva bisogno d’aiuto per studiare e alla fine l’aveva portata in giro per la città con la vespa.
Erano già passati tre anni.
Un lampo squarciò il cielo.
Al trillo del cellulare si affrettò a scendere le scale per raggiungere Andrea e Marco, un amico comune.“Dobbiamo aspettare ancora?” le chiese Andrea, divertito. Gilda sorrise. Sapeva bene che la stava solo prendendo in giro. Andrea usciva anche con altre ragazze. “Non voglio impegnarmi” le aveva detto dopo la prima sera insieme, ma continuava a correre da lei tutte le volte che aveva un problema o solo voglia di chiacchierare. Gilda gli voleva bene. Certe volte pensava persino di esserne innamorata. Le piaceva parlare con lui, toccarlo, sentirlo suo, anche se solo per qualche ora. Moriva di gelosia quando lo vedeva in giro, però faceva finta di niente. Stringeva i denti. Sapeva che una scenata non avrebbe sortito effetti. Lui le avrebbe detto che “sì, era proprio un bastardo” e lei se ne sarebbe tornata a casa, arrabbiata, a fissare il cellulare, con la speranza di un messaggino rappacificatore. Anche Lidia le aveva raccomandato di lasciarlo perdere, perché Andrea non era altro che un ragazzino viziato, arrabbiato col mondo. E allora perché non riusciva a dirgli mai di no?
Non appena salì in macchina, Andrea le raccontò che quella mattina il direttore del supermercato dove lavorava aveva minacciato di licenziarlo “Ci teneva a farmi sapere che se non smetto di ritardare mi spedisce a casa”. “E tu smettila” suggerì ironica lei “Sei intelligente, lavori bene, cerca di non farti cacciare per così poco” aggiunse, accarezzandogli i capelli arruffati. Andrea annuì, sornione. Forse, nel frattempo, stava già pensando ad altro.
La strada era d’improvviso un percorso di liberazione. Intorno, un silenzio insolito per essere estate. Marco aveva acceso una sigaretta, e con la mano fuori dal finestrino, lasciava dissolvere il fumo. La radio suonava Losing my religion dei Rem, la stessa canzone che avevano ascoltato qualche sera prima. Lui aveva litigato con la madre. Gli aveva fatto notare che uscendo tutte le sere, arrivare in ritardo a lavoro era il minimo immaginabile. Lui l’aveva pregata di non immischiarsi, di farsi da parte. Così era scoppiata la lite.
Andrea era figlio unico. Il padre viveva da anni in Norvegia dove si era creato una nuova famiglia. La moglie aveva sempre sospettato che le lunghe permanenze del marito nel nord Europa nascondessero altro che impegni di lavoro, ma non aveva mai domandato nulla.
Il ragazzo afferrò le chiavi dell’auto e corse dall’amica “Scendi. È urgente” le aveva detto a telefono. Stringeva i pugni sulle ginocchia esili, teneva la testa bassa, lasciava montare la rabbia, trattenendo improvvisi singulti. Gilda lo guardava. Non sembrava nemmeno lui. Gli accarezzò i capelli, felice di poterlo toccare, rubarlo alle braccia di chissà chi almeno per una sera. Gli prese la mano, aggrappandosi a quei pensieri elettrici, esagerati per una lavata di testa, esagerati per star lì, a parlarne, illuminati solo dalla luna. “Come fai a starmi dietro?” chiese lui, rompendo il silenzio. Gli occhi neri, liquidi, dentro quelli di lei. Sei bello, pensò,
 ma non glielo disse.
La voce di Michael Stipe riempiva i vuoti tra i tre, che non avevano voglia di parlare o, magari, non avevano nulla da dirsi. La macchina, sparata a novanta chilometri orari, pareva procedere da sola, trascinandosi dietro un po’ di rabbia e d’apatia. Arrivarono ad un vicolo cieco, in fondo al quale s’intravedeva un grosso cancello verde. Dietro, una villetta di due piani, con davanti un lungo cortile, costeggiato da un muretto. Andrea parcheggiò l’auto poco prima dell’entrata. Gilda si guardava intorno per capire dove era finita, ma invano. In quel posto non c’era mai stata. Marco scese per primo dalla macchina e puntò dritto al portellone del cofano. Prese uno zaino e lo richiuse. “Si può sapere dove siamo?” chiese Gilda. Andrea e Marco camminavano avanti, senza esitare. Poi Andrea tornò indietro. “Spaventiamo un po’ il mio direttore. Tu dovresti fare la guardia al cancello e segnalare, con la luce di questa torcia, se arriva qualcuno. Questo è il piano”.
Marco scavalcò il muretto, con lo zaino sulle spalle, Andrea lo seguì. Gilda aggrottò la fronte, incerta di aver capito quello che il ragazzo le aveva appena detto. “Voi siete pazzi” fece.  Marco fissò Andrea, come a pregarlo di liquidare la faccenda. Gilda li stava ostacolando. Andrea, valicato il muretto, si avvicinò al cancello. Gilda lo fissava, implorandolo con gli occhi. Sospesi in quell’attimo, erano ancora liberi di tornarsene a casa. “È una sciocchezza, Andrea”. Lui le voltò le spalle. I due ragazzi si avviarono alla veranda, tra il giardino e gli interni. Marco appoggiò lo zaino per terra e ne estrasse due spranghe. Forzarono la tapparella e ruppero il vetro. In una delle stanze, al piano di sopra, dormiva il padrone di casa, che si svegliò di soprassalto per il fracasso. I ladri, pensò, e senza esitare si infilò le pantofole e la vestaglia.
Giù, stavano mettendo tutto a soqquadro: poltrone divelte, cuscini squarciati. “Oh Andrea, andiamo via, andiamo via”, urlò Marco che aveva intravisto l’ombra di una torcia sulle scale”. Si precipitarono fuori. Correvano, in un attimo furono già oltre il muretto.
Gilda era ancora là, appoggiata al cancello, a fissare il vuoto. “Corri, Gilda, corri” le urlarono. Ma non si mosse. Neanche li vedeva più gli amici. Devo smetterla di ficcarmi nei guai per star dietro a quell’idiota, pensò incamminandosi. Non fece neanche in tempo a completare il pensiero, che avvertì un dolore acuto al braccio. “Bastardi, la prossima volta vi ammazzo” urlò il padrone di casa dal terrazzo con in mano una pistola fumante. La manica della camicia di Gilda divenne rossa in un attimo. Raccolse le energie residue per telefonare ad Andrea “Mi hanno sparato”, sibilò, e svenne come in preda ad un sonno improvviso.










                               

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