Per settimane il
sole aveva battuto insistente. Poi, quella sera, tutto ad un tratto cominciò a
piovere.
Le pareti della
stanza di Gilda erano zeppe di fotografie: Bob Dylan, Carl Marx, Fabrizio De
Andrè, Jim Hendrix, John Lennon, e Pier Paolo Pasolini. La luce blu della
lampadina illuminava i fogli sparsi
sulla scrivania e ne rifletteva le ombre. Gilda si era vestita in fretta. Si
muoveva disinvolta nella camera, rovistando tra cassetti e vecchie scatole,
alla ricerca di gingilli e di qualche spicciolo. L’immobilità dell’aria
lasciava finalmente spazio ad una leggera brezza marina, preludio di fine
estate.
Per fortuna non sono ancora arrivati, pensò, mentre raggruppava il
portafogli, le chiavi e il rossetto.
Il vento, di
tanto in tanto, entrava a smuovere quell’aria di plastica.
Andrea le aveva
dato appuntamento per le ventuno e trenta. Un messaggio laconico, senza giri di
parole. Come quella volta che aveva bisogno d’aiuto per studiare e alla fine
l’aveva portata in giro per la città con la vespa.
Erano già
passati tre anni.
Un lampo
squarciò il cielo.
Al trillo del
cellulare si affrettò a scendere le scale per raggiungere Andrea e Marco, un
amico comune.“Dobbiamo aspettare ancora?” le chiese Andrea, divertito. Gilda sorrise.
Sapeva bene che la stava solo prendendo in giro. Andrea usciva anche con altre
ragazze. “Non voglio impegnarmi” le aveva detto dopo la prima sera insieme, ma
continuava a correre da lei tutte le volte che aveva un problema o solo voglia
di chiacchierare. Gilda gli voleva bene. Certe volte pensava persino di esserne
innamorata. Le piaceva parlare con lui, toccarlo, sentirlo suo, anche se solo
per qualche ora. Moriva di gelosia quando lo vedeva in giro, però faceva finta
di niente. Stringeva i denti. Sapeva che una scenata non avrebbe sortito
effetti. Lui le avrebbe detto che “sì, era proprio un bastardo” e lei se ne
sarebbe tornata a casa, arrabbiata, a fissare il cellulare, con la speranza di
un messaggino rappacificatore. Anche Lidia le aveva raccomandato di lasciarlo
perdere, perché Andrea non era altro che un ragazzino viziato, arrabbiato col
mondo. E allora perché non riusciva a dirgli mai di no?
Non appena salì
in macchina, Andrea le raccontò che quella mattina il direttore del
supermercato dove lavorava aveva minacciato di licenziarlo “Ci teneva a farmi
sapere che se non smetto di ritardare mi spedisce a casa”. “E tu smettila”
suggerì ironica lei “Sei intelligente, lavori bene, cerca di non farti cacciare
per così poco” aggiunse, accarezzandogli i capelli arruffati. Andrea annuì,
sornione. Forse, nel frattempo, stava già pensando ad altro.
La strada era
d’improvviso un percorso di liberazione. Intorno, un silenzio insolito per
essere estate. Marco aveva acceso una sigaretta, e con la mano fuori dal
finestrino, lasciava dissolvere il fumo. La radio suonava Losing my religion
dei Rem, la stessa canzone che avevano ascoltato qualche sera prima. Lui aveva
litigato con la madre. Gli aveva fatto notare che uscendo tutte le sere,
arrivare in ritardo a lavoro era il minimo immaginabile. Lui l’aveva pregata di
non immischiarsi, di farsi da parte. Così era scoppiata la lite.
Andrea era
figlio unico. Il padre viveva da anni in Norvegia dove si era creato una nuova
famiglia. La moglie aveva sempre sospettato che le lunghe permanenze del marito
nel nord Europa nascondessero altro che impegni di lavoro, ma non aveva mai
domandato nulla.
Il ragazzo
afferrò le chiavi dell’auto e corse dall’amica “Scendi. È urgente” le aveva
detto a telefono. Stringeva i pugni sulle ginocchia esili, teneva la testa
bassa, lasciava montare la rabbia, trattenendo improvvisi singulti. Gilda lo
guardava. Non sembrava nemmeno lui. Gli accarezzò i capelli, felice di poterlo
toccare, rubarlo alle braccia di chissà chi almeno per una sera. Gli prese la
mano, aggrappandosi a quei pensieri elettrici, esagerati per una lavata di testa,
esagerati per star lì, a parlarne, illuminati solo dalla luna. “Come fai a
starmi dietro?” chiese lui, rompendo il silenzio. Gli occhi neri, liquidi,
dentro quelli di lei. Sei bello, pensò,
ma non glielo disse.
La voce di Michael Stipe riempiva i vuoti tra i tre, che non avevano voglia
di parlare o, magari, non avevano nulla da dirsi. La macchina, sparata a
novanta chilometri orari, pareva procedere da sola, trascinandosi dietro un po’
di rabbia e d’apatia. Arrivarono ad un vicolo cieco,
in fondo al quale s’intravedeva un grosso cancello verde. Dietro, una villetta
di due piani, con davanti un lungo cortile, costeggiato da un muretto. Andrea
parcheggiò l’auto poco prima dell’entrata. Gilda si guardava intorno per capire
dove era finita, ma invano. In quel posto non c’era mai stata. Marco scese per
primo dalla macchina e puntò dritto al portellone del cofano. Prese uno zaino e
lo richiuse. “Si può sapere dove siamo?” chiese Gilda. Andrea e Marco
camminavano avanti, senza esitare. Poi Andrea tornò indietro. “Spaventiamo un
po’ il mio direttore. Tu dovresti fare la guardia al cancello e segnalare, con
la luce di questa torcia, se arriva qualcuno. Questo è il piano”.
Marco scavalcò il muretto, con lo zaino sulle spalle, Andrea
lo seguì. Gilda aggrottò la fronte, incerta di aver capito quello che il
ragazzo le aveva appena detto. “Voi siete pazzi” fece. Marco fissò Andrea, come a pregarlo di
liquidare la faccenda. Gilda li stava ostacolando. Andrea, valicato il muretto,
si avvicinò al cancello. Gilda lo fissava, implorandolo con gli occhi. Sospesi
in quell’attimo, erano ancora liberi di tornarsene a casa. “È una sciocchezza,
Andrea”. Lui le voltò le spalle. I due ragazzi si avviarono alla veranda, tra
il giardino e gli interni. Marco appoggiò lo zaino per terra e ne estrasse due
spranghe. Forzarono la tapparella e ruppero il vetro. In una delle stanze, al
piano di sopra, dormiva il padrone di casa, che si svegliò di soprassalto per il fracasso. I ladri, pensò, e senza esitare si
infilò le pantofole e la vestaglia.
Giù, stavano mettendo tutto a soqquadro: poltrone
divelte, cuscini squarciati. “Oh Andrea, andiamo via, andiamo via”, urlò Marco
che aveva intravisto l’ombra di una torcia sulle scale”. Si precipitarono fuori.
Correvano, in un attimo furono già oltre il muretto.
Gilda era ancora là, appoggiata al cancello, a fissare
il vuoto. “Corri, Gilda, corri” le urlarono. Ma non si mosse. Neanche li vedeva
più gli amici. Devo smetterla di ficcarmi
nei guai per star dietro a quell’idiota, pensò incamminandosi. Non fece
neanche in tempo a completare il pensiero, che avvertì un dolore acuto al
braccio. “Bastardi, la prossima volta vi ammazzo” urlò il padrone di casa dal
terrazzo con in mano una pistola fumante. La manica della camicia di Gilda
divenne rossa in un attimo. Raccolse le energie residue per telefonare ad
Andrea “Mi hanno sparato”, sibilò, e svenne come in preda ad un sonno
improvviso.
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