venerdì 29 luglio 2011

Orgoglio materno

Oggi ho messo su il disco che piaceva tanto a mia sorella: Borghesia di Claudio Lolli. Un maledetto motivo comunista, a cui, però, sono affezionato. Liala se ne stava ore ed ore chiusa in camera ad ascoltarlo. Lo canticchiava sempre “Vecchia piccola borghesia per piccina che tu sia io non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia”. Alle prime note mamma sbraitava, puntuale come un orologio svizzero “Dimmi tu, può la figlia di un medico e di un ingegnere cantare una schifezza del genere?”. Liala, per tutta risposta, usciva, sbattendo la porta. Sbatteva la porta quando in salotto si brindava all’ultima manovra economica filoborghese, o quando sua madre ed i suoi amici piangevano miseria nonostante un cospicuo conto in banca. Non usciva dalla stanza nemmeno per salutare gli ospiti in poltrona, e se provavo a distoglierla, mi rispondeva che certi discorsi, prima o poi, avrebbero fatto pentire il creatore di aver donato la lingua a tutto il genere umano. Sbattere la porta era il suo modo di implodere. “Ma che razza di modi” borbottava mamma, sperando che nostro padre intervenisse.
L’ultima volta che ho visto mia sorella stava per partire. Quando quella sera di dieci anni fa è apparsa sull’uscio di casa con le valigie, sapeva già dove andare. A casa avevano discorso a lungo della decisione di Liala di andare a vivere da sola. “Me ne vado” aveva detto mia sorella alla fine dell’ennesima discussione “Non mi interessa né quello che penserà la nonna, né i vicini. Sono abbastanza grande da badare a me stessa”. Mia madre la guardò sprezzante, come se quella ragazza con i capelli rossi, gli occhi verdi ed il viso puntellato di lentiggini, non fosse sua figlia. La fissava severa, come si fissa una canaglia. Nei giorni antecedenti la partenza, la mamma promise a mia sorella una stanza nuova, una casa, una casa e un viaggio insieme, ma non riuscì a distoglierla. Nutriva da sempre grandi aspirazioni per la sua primogenita: ingegnere, medico, avvocato o persino astronauta. Tuttavia  in quel momento era chiaro che Liala non avrebbe intrapreso nessuna di quelle vite, che non avrebbe imboccato nessuna di quelle strade disegnate a tavolino per chissà quale assurde convinzioni. No, mia sorella aveva scelto di seguire l’istinto. Giusto o sbagliato che fosse, doveva provare. Papà le sorrise. Lui sapeva già tutto. Sapeva che quella bambina che rincorreva le farfalle giù per le vallate e  seguiva con lo sguardo la scia degli aerei che rigavano il cielo, era testarda come un mulo. Aveva cercato persino di persuadere la mamma, anche se con scarsi risultati. Mia madre e Liala, ormai, si parlavano a stento, e forse un allontanamento sarebbe stata la miglior soluzione possibile.
La fuggiasca aveva in mano una valigia e una borsa a fiori a tracolla, una di quelle lavorate a mano. “Vado a Roma da un’amica. Non vorrei darvi questo dolore, o meglio darti, mamma, questo dolore, ma non mi lasci alternative” disse oltre la porta. Mia madre le rivolse appena uno sguardo. Conoscendola, suppongo si sentisse tradita. Da dove saltava fuori tutta quella determinazione? Mamma se lo chiede ancora, quando, di pomeriggio, il sole s’infila tra le persiane socchiuse ed rischiara la sua stanza da letto. Nascosta nella vestaglia, si dondola su un’antica sedia ereditata da mia nonna. “Se telefona tua sorella, chiamami subito” non fa che ripetermi, però non ha il coraggio di cercarla. Sarebbe capace di rinunciare a sentirne la voce, pur di non digitare uno stupido numero.
Mi piaceva parlare con Liala, infilarmi nella sua stanza, di sera, dopo cena. Di solito scriveva o strimpellava la chitarra. Io me ne stavo sdraiato sul letto e la guardavo “Ma perché fai sempre incazzare la mamma?” le chiedevo, sperando di sedare le ostilità familiari. Non mi rispondeva. Sorrideva, sorniona, e scrollava le spalle, come se non avessi aperto bocca. Che tipo!
“Guarda che cosa fa tua figlia invece di studiare” disse un pomeriggio mia madre irrompendo nello studio di mio padre. Liala non era in casa. Non vedeva l’ora di fare la spia. “Tesoro, di che si tratta? non è che potremmo parlarne dopo? ora sono un po’impegnato” le rispose senza neanche staccare gli occhi dal monitor del computer. Mia madre s’imbronciò come una bambina a cui avevano negato un giocattolo nuovo. Rivolse uno sguardo offeso al marito e ritornò a scartabellare tra le carte sparse sulla scrivania di Liala. Confessioni, raccontini, poesie: pagine che rivelavano l’indole di un’adolescente sensibile, delusa, che chiedeva aiuto, comprensione, amore. Invocava il nome di sua madre, di notte, quando nessuno sapeva o poteva vederla, quando, sotto la luce fioca della lampada sul comodino, intrecciava parole, e le sembrava, così, di sentirsi meno sola. Quando eravamo piccoli papà ci portava al mare a giocare con la sabbia. Ci invogliava a togliere le scarpe e a rincorrere le onde. Ci guardava vivere, e gli occhi gli si accendevano come lampare rivelava un frammento di carta dimenticato sul pavimento. Vidi mia madre strappare le pagine, soffocare tutte quelle parole d’inchiostro. La scena mi turbò a tal punto che non ne ho mai fatto parola con nessuno. Al suo rientro, Liala trovò solo un cimitero di fogli sparpagliati. Non disse nulla. Chiuse solo la porta, come sempre. Quella stessa notte mia sorella, illuminata dalla luna, riprese a scrivere. Piangeva e scriveva, aggrappandosi alla penna quasi fosse un salvagente. Intanto erano volati cinque anni.
“Tua figlia è nata per scrivere” ha confessato qualche mattina fa un’amica di famiglia a mia madre. Così lei ha scoperto che Liala ha pubblicato il suo primo libro. Mamma ha esitato. “Credevo lo sapessi” ha ribattuto l’amica “Se fosse mia figlia ne sarei orgogliosa”. Orgogliosa? di chi, di Liala? pensò, ma, improvvisando a malapena un sorriso. Rispose solo “No, non avevo idea. È chiaro che voleva farmi una sorpresa”.

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